Gli incontri durante il servizio in pediatria:
Elisa, 12 anni, non può ridere per i punti della ferita dell’appendicite, vuole fare l’artistico, gli chiediamo di farci un disegno mentre completiamo il giro.
Davide, 9 anni, ci interroga su pronomi e aggettivi (chiediamo l’aiuto del pubblico!).
Lorenzo, 14 anni, ex praticante di parkour, si è rotto i legamenti del ginocchio saltando un fosso mentre portava a spasso il suo cane (no vabbè).
Samira, 5 anni, una bimba egiziana che non smette di guardarci e di sorriderci con i suoi occhi grandi e profondi… è talmente meravigliosa che decidiamo di invitarla a seguirci per tutto il servizio e mi ritrovo a stringerle la manina ogni volta che percorriamo il corridoio ed entriamo in una stanza, poi la sua postazione preferita è in braccio a Guantone o di fianco a Metrella durante i suoi giochi di magia.
Mi ha fatto pensare che anche se non capiva niente delle nostre battute, se non conosceva le cose di cui parlavamo con altri pazienti perchè troppo piccola e se non era coinvolta in prima persona nelle nostre gag, non ha mai manifestato la voglia di tornare nel suo letto o dalla mamma, anzi quando siamo dovuti andare via si è proprio visto il suo dispiacere… ci ha salutati con un bacino pieno di malinconica tenerezza.
Usciamo dal reparto e andiamo nel corridoio esterno dove possiamo parlare attraverso il vetro della camera di isolamento dove c’è Claudia.
Ci racconta, senza mai smettere di ridere insieme a noi, che il giorno dopo compirà diciotto anni e quindi verrà trasferita nel reparto degli adulti.
Mi domando: è facile trovare la forza di ridere quando si è in una camera in isolamento?
La risposta è… non lo so… ma menomale che ci sono persone che riescono a farlo!
La salutiamo e rientriamo in spogliatoio per cambiarci.
I compagni che sono stati in cardiologia mi dicono che c’è un paziente che vuole salutarmi (era già ricoverato la settimana scorsa quando io ero in turno in quel reparto).
Decidiamo di andarci tutti insieme.
Questo semplice gesto, che potrebbe sembrare un comportamento di normale prassi, in realtà mi permette di fare più di una riflessione.
Nel momento in cui entriamo in reparto in gruppo struccati e “svestiti” dei nostri colori, accessori e nasi rossi ci guardano come a dire “e questi chi sono?”, non ci riconoscono… e quando le infermiere capiscono le sentiamo dire “sono i pagliacci in borghese”.
Ho adorato e disprezzato al tempo stesso questa affermazione.
Ero delusa e quasi a disagio nel non avere addosso quei segnali identificativi di riconoscimento che ci consentono il grande privilegio di entrare a gamba tesa nella vita di una persona mentre non è nella sua condizione migliore e che ci permettono di instaurare un grado di empatia tale da poterla abbracciare dopo soli dieci minuti.
Io, che credevo che la clownterapia fosse uno scambio alla pari, mi ritrovo invece a pensare fra me e me “mi sembra di dare così poco e di ricevere così tanto”… questa è la vera magia della clownterapia!
Fagy

P.S.: il disegno che ci ha fatto Elisa è bellissimo, lo colorerò e lo porterò in riunione.

Fagianella